Protagonista delle prime pagine è la vita, che formicola nelle strade e nelle piazze. I quadretti, composti dall’anonimo, lasciano le case, le chiese e i palazzi a fare da quinte e scenario alla gente, impegnata a passeggiare e affaccendarsi, come lo spirito della città impone. Lo fanno nei costumi, secondo le mode del tempo, in posti che non sono troppo diversi dagli attuali, ma irrimediabilmente diversi, benché si riconoscono dal primo istante.
Finora, una ricerca condotta anche attraverso un gruppo di Facebook non ha dato un nome all’autore. Non è escluso che, prima o poi, si presenti o alcuno ne indovini l’identità. Allora, sarà il diretto interessato a spiegare cosa lo spinse a fotografare attimi tanto banali, eppure tanto incantevoli.
Negli scatti dell’anonimo c’è l’imbianchino arrampicato sulla scala a pioli, davanti al un lampione dalla forma inequivocabile. Un ambulante aggiusta la motoretta. Sul manubrio, è montato il refrigeratore del “Super gelato”, come oggi neppure in cartolina. Impagabile è lo spaccato di piazza San Giovanni, ripresa dalla torre campanaria della basilica. Guarda le auto, parcheggiate nelle aree di sosta. Ancora una volta, è il tempo a dare la misura di un’immagine presente, che si scolora nel passato prossimo.
Segreta è invece la Busto della seconda sezione. Qui, il colore caldo e agée lascia spazio al bianco e nero, che racconta con lo stile del reportage i freddi cortili e le penombre.
La poetica del professor Mario Tancredi fa da controcanto all’opulenza della città operosa, che si scopre improvvisamente misera, non senza provarne vergogna.
“Venivo a fare visita a mia cognata, che aveva una brutta malattia ed era in cura all’ospedale di Busto”, ricorda Tancredi, docente in pensione. All’epoca, insegnava italiano e latino al liceo scientifico di via Vittorio Veneto, a Milano.
Succedeva tra il 1984 e il 1985: “Nei momenti liberi, percorrevo le vie del centro. Scoprivo una città affatto estranea al mio immaginario. Quando pensavo a Busto Arsizio – succedeva a me come a chiunque, – la mente correva all’epopea del tessile, al benessere di un industrioso borgo padano, dove i soldi giravano a vagonate. Erano gli anni della Milano da bere e, per quello che ne sapevo direttamente, Busto non era da meno”.
La realtà che il professor Tancredi spalanca, celata dai portoni socchiusi, contraddice l’immagine della città immaginata, arricchendola di inesprimibile poesia: “Rimasi affascinato dalla visione delle corti popolari, dove mancava tutto, a cominciare dall’acqua calda e dall’illuminazione. Iniziai a ritrarre quei luoghi con dedizione e con la passione per la fotografia. Usavo una Hasselblad e una Nikon F3, che montava un grandangolare dalle qualità favolose, senza linee cadenti. Girai per mesi, macchina in spalla, aspettando la luce giusta, le ombre appropriate, chiedendo alla gente di posare per me”.
Dalla Busto delle corti e dalla passione del professore, nascono 120 scatti. Una decina si conquista la ribalta l’anno seguente, alla ex Fiera di Milano, in occasione del Salone Internazionale d’Arte e Fotografia: “Vennero stampate in formato fine-art dallo stampatore di Gianni Berengo Gardin. Anche il Comune di Busto si interessò, ma non se ne fece niente”, ricorda Tancredi, 83 anni d’età. Insieme all’anonimo, stampe e negativi sono depositate in archivio, in attesa soltanto di essere strutturati.
La terza e ultima sezione è firmata da Claudio Argentiero. Ha come oggetto l’architettura e si riferisce al movimento: “Lento e rapido che sia, ogni movimento in atto nella società deforma e riadatta – o degrada irreparabilmente – il tessuto urbano, la sua topografia, la sua sociologia, la sua cultura istituzionale e la sua cultura di massa (diciamo: la sua antropologia)”. Il passo è ancora di Italo Calvino. Si trova in un articolo intitolato Gli dèi della città. Pubblicato nel 1975, è incluso nella raccolta di saggi Una pietra sopra.
“Città diverse si succedono e si sovrappongono, sotto uno stesso nome di città. Occorre non perdere di vista quale è stato l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo la sua storia, quello che l’ha distinta dalle altre città e le ha dato un senso. Ogni città ha un suo programma implicito, che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vedere cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi”, conclude l’autore de Le città invisibili.
Se non si palesano, gli dèi di Busto si lasciano quanto meno intravedere. Sono i lavori per lo spostamento dell’obelisco ai caduti, ora in piazza Trento e Trieste. Sono la vecchia insegna con il biscione dell’Inter Club, in piazza Vittorio Emanuele. Sono le demolizioni delle vecchie fabbriche, svuotate di operai, macchinari e lavoro. Tra la via Mazzini e piazza Manzoni, sorgeranno palazzine. Sono i cortili scomparsi: gli stessi immortalati dal professore milanese, appena poche pagine prima.
Sia chiaro. Non è un libro incline alla nostalgia questo, né alla denuncia. L’occhio panoramico si sofferma su una città in cambiamento. Dalla stazione ferroviaria delle Nord al restauro della cappella di San Carlo, l’anello di congiunzione tra passato e presente coglie l’attimo della metamorfosi. Il viaggio, proposto in queste pagine, mostra una città che non esiste, ma mantiene determinate caratteristiche.
Di Busto Arsizio, si diceva fosse “la città delle cento ciminiere”. Lo è ancora. Sono ciminiere invisibili che raccontano una storia di imprenditorialità, di operosità, che ha elevato un tessuto sociale dalla miseria e che ha bisogno di cambiare, per esprimersi secondo i tempi, per mantenersi fedele a se stessa. Lo fa con accenni di poesia e con tanto ottimismo, nella certezza di ritrovare sempre i suoi déi.
Testi di: Carlo Colombo
Pagine: 126
Illustrazioni: bianco e nero / colore
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